Una Ravenna di nebbia e fabbriche negli occhi di Antonioni

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U n paesaggio avvolto nella nebbia da cui sbucano ciminiere e impianti industriali. Questa è l’immagine che torna alla memoria pensando a Michelangelo Antonioni e alla Ravenna scelta come scenario per Il deserto rosso, film del 1964. Il regista ferrarese aveva già frequentato luoghi ravennati qualche anno prima, per Il grido (1957), uno dei suoi capolavori, nella scena in cui il protagonista Aldo (Steve Cochran) è in gita con Virginia (una mora Dorian Gray, in uno dei rari ruoli drammatici), camminando in una via Di Roma che reca ancora i segni e le macerie del seconda conflitto mondiale, con alle spalle Porta Nuova.

D’altronde Antonioni Ravenna la conosceva bene, come lui stesso confessava: «Ci andavo da giovane molte volte l’anno, soprattutto quando partecipavo ai tornei di tennis» (questa e le altre dichiarazioni sono tratte da Il mio Antonioni, a cura di Carlo Di Carlo, Cineteca di Bologna, Istituto Luce – Cinecittà, 2018).

Ma la Ravenna che fa da sfondo a Il deserto rosso, prosegue il regista, non è la città dei monumenti bizantini bensì quella esterna: «La violenta trasformazione del paesaggio naturale attorno alla città mi ha molto colpito. Prima c’erano pinete immense, bellissime, oggi quasi completamente morte. Penso che le poche sopravvissute moriranno per far posto alle fabbriche, ai canali artificiali, al porto. Mi è sembrato lo sfondo ideale per la storia che avevo in mente, naturalmente una storia a colori».

E la storia è quella di Giuliana (Monica Vitti) moglie di Ugo (Carlo Chionetti), un ingegnere che dirige una raffineria, e madre del piccolo Valerio (Valerio Bartoleschi), che qualche tempo prima ha tentato il suicidio. Gesto voluto perché, spiega il regista, la giovane donna «è incapace di adattarsi alla nuova “tecnica” di vita e va in crisi mentre suo marito invece è contento della sua sorte».

È in qualche modo un “non adattato” anche Corrado (Richard Harris), vecchio amico del marito, giunto a Ravenna per cercare operai che lo seguano in Patagonia. Tra i due nasce una sintonia che troverà sbocco in un incontro d’amore in albergo da cui Giuliana fuggirà nella notte diretta al porto dove vagherà senza meta tra fiancate di navi arrugginite, perché neanche quel rapporto può portare tranquillità alla sua inquietudine.

Il deserto rosso è il primo film a colori di Antonioni, colore utilizzato in maniera particolare. Le tonalità prevalenti sono quelle fredde e grigie (si veda la scena iniziale in cui l’unica macchia di colore è il verde del cappotto della protagonista che spicca su un fondale di fabbriche e ciminiere), accentuate da una nebbia che tutto avvolge (e in netto contrasto con la solarità della sequenza della favola raccontata al figlioletto, girata in Sardegna).

In una delle scene clou del film, quella del capanno in cui si raccoglie il gruppo di amici, il rosso e il bianco degli interni fa da netto contrasto con il grigio dell’esterno in cui sbuca dalla bruma, come un fantasma, una nave annunciata dal suono della sirena. In alcuni casi, Antonioni è intervenuto direttamente sul colore degli esterni: «Ho cercato di colorare i paesaggi che avevo davanti per adeguarli alla necessità della scena stessa. Così, per fare un esempio, nella scena della palude, nella quale io dovevo dare un’impressione di desolazione e di morte perché quella è la realtà di quel paesaggio, e c’erano invece delle chiazze di erba verde, e il colore dell’erba non era quello che io credevo dovesse essere, ho colorato gli argini, ho colorato l’erba, gli alberi per cercare di trasmettere una suggestione necessaria».

Da ricordare, a questo riguardo, l’eccellente lavoro, in sintonia coi voleri del regista, del direttore della fotografia Carlo Di Palma che collaborerà con Antonioni anche nel successivo Blow up. Il film viene ricordato anche per la battuta pronunciata dalla Vitti: «Mi fan male i capelli». Un verso da una poesia di Amelia Rosselli, inserita da Tonino Guerra, autore col regista della sceneggiatura.

La giuria della Mostra di Venezia del 1964, presieduta da Mario Soldati, assegnò a Il deserto rosso il Leone d’oro, mentre quello d’argento andò al Pasolini di Il vangelo secondo Matteo.

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