Stefania Parmeggiani, nata a Rimini nel 1977, è oggi una firma di Repubblica, ma il cordone con la sua terra non l’ha mai tagliato. Tanto da dedicare a Rimini e al suo lare il volume Fellini. Rimini e il sogno. Ricordi, bugie e immaginazione appena pubblicato da Zolfo (pp. 176, euro 16).
Come nasce il suo rapporto con Federico Fellini? È quello di una giornalista o, prima ancora, quello di una conterranea?
«Sono romagnola e quindi il mio rapporto con Fellini è innanzitutto un legame di terra. Nasce dai racconti di mio nonno, suo coetaneo, e da certe domeniche invernali nelle quali io e i miei amici per spezzare la noia mettevamo la videocassetta di
Amarcord e ripetevamo a memoria quelle battute di un mondo che non avevamo mai conosciuto. Perché lo facessimo è ancora oggi un mistero: cosa mai poteva raccontare a noi che eravamo cresciuti nella riviera del divertimentificio? Eppure, ci parlava, dimostrandoci che il grande cinema è tale perché universale».
Lei, come Fellini, ha lasciato la sua città di origine e ha costruito la sua vita e la sua carriera a Roma: si riconosce nel ritratto un po’ malinconico che Fellini faceva di Rimini e delle sue trasformazioni violente?
«Il mio bagaglio di ricordi è differente, più vicino alla Rimini di Pier Vittorio Tondelli che a quella di Fellini. E le trasformazioni a cui ho assistito sono state profonde, ma non violente. Però sì, mi riconosco nella nostalgia del passato».
Il suo libro racconta Fellini, ma racconta anche la città di Rimini, accompagnando in visita i lettori e invitandoli – tramite il regista – a conoscerla. Qual è a suo avviso la peculiarità di Rimini, quello che la rende diversa dalle altre?
«Rimini è rinata dalle macerie della Seconda guerra mondiale come un gigantesco set su cui proiettare sogni e desideri. Ed è diventata, proprio come il cinema del regista, una macchina dei sogni, una città che attraversa le stagioni e la storia italiana creando mondi immaginari, senza mai tradire sé stessa».
Tra i tanti personaggi citati, luoghi e aneddoti felliniani del volume, quali sente più vicini o ama di più?
«Il molo di Levante, dove finisce la terra e comincia l’altrove. Lì i vitelloni progettavano avventure e fughe d’amore, Titta si cullava nel dolore dopo la morte della madre, Scureza ad Corpolò sfrecciava in moto…
Per Fellini la palata era l’inizio di un lungo sogno a occhi aperti . E credo non solo per lui. Si va lì per guardare il mare che, come diceva Tonino Guerra, è l’infinito di noi romagnoli. E poi il monumento alla Vittoria, ma non per il sederone lucido di pioggia, bensì per il suo scultore, Bernardino Boifava, un personaggio decisamente felliniano». Nel volume si parla dell’atteggiamento diffidente e a tratti astioso dei riminesi nei confronti del grande regista che ambientò i suoi film nella città natale, ma che in essa non girò neppure una scena. Crede che la ferita si sia ormai sanata?
«Credo che a sanarla ci abbia pensato
Amarcord,
il film che ha fatto entrare Rimini nella storia del cinema . E la dimostrazione è in quello che Pietro Arpesella disse alla giornalista Anna Tonelli quando migliaia di persone sfilarono davanti al suo feretro nella sala delle Colonne: “Ecco la risposta ai falsari, a chi ha sempre voluto dire che Rimini non amava Federico”». Nella prefazione del libro lei parla dell’anima felliniana di Rimini: «anarchica, irriverente, dissacrante e persino un po’ matta». Oggi, a trent’anni dalla morte del grande regista, la città, così profondamente diversa da quella dipinta in “Amarcord”, conserva ancora quest’anima?
«Io la ritrovo ovunque, nel gusto per l’iperbole di certe campagne di comunicazione, nel temperamento dei suoi amministratori, nell’inventiva degli imprenditori, nelle focose polemiche sul futuro della città e persino in certi manifesti funebri. E poi conosco persone, nel riminese, che fanno cose folli come attraversare l’Adriatico in canoa e in solitaria. A chi mai verrebbe in mente?».
Nonostante lo sforzo del Comune di valorizzare uno dei suoi più illustri cittadini, forse il più illustre, la fama del maestro del cinema sembra però essersi notevolmente affievolita fra le nuove generazioni. Quali crede possano essere i modi per far riscoprire anche ai giovani l’arte e la personalità di Federico Fellini?
«È vero, i ragazzi di oggi perlopiù non conoscono Fellini. Sono bombardati da stimoli visivi poco o niente riconducibili alla sala cinematografica e assuefatti a certe serie che sembrano già confezionate da un algoritmo per quanto ripetitive. Come invertire la rotta? Non sono una esperta, ma credo che il
Fellini Museum possa diventare sempre più non solo un luogo di studio del suo cinema, ma anche di ricerca. Magari, potrebbe farsi volano di una Scuola del cinema e dei mestieri del cinema. Teoria e pratica, due cose che quando vanno a braccetto fanno miracoli». C’è una scena di un film di Fellini che ama particolarmente, e perché?
«Il finale delle
Notti di Cabiria, quando Giulietta Masina vaga senza meta dopo la fine dei suoi sogni, bastonata per l’ennesima volta dalla vita. Poi però si trova circondata da ragazzi che suonano e ballano. Lei non dice nulla. Parlano i suoi occhi e la musica di Nino Rota. Si passa dalla disperazione a qualcosa che sembra fiducia nel futuro. In pochi secondi c’è tutto il cinema di Fellini: sogno e desiderio, solitudine e amore, malinconia e speranza».
Crede che Rimini abbia qualche chance di vincere la candidatura a Capitale italiana della cultura 2026 o è una ipotesi velleitaria?
«Le capitali italiane della cultura generalmente hanno un passato glorioso e un presente di creatività e innovazione. Rimini ha entrambe queste caratteristiche e quindi ha le carte in regola per candidarsi, ma non conosco i dossier delle candidate, tutti in fase di elaborazione, e neppure i nomi degli esperti a cui il ministro Sangiuliano affiderà la scelta. Per sapere quante chance ha Rimini mi servirebbe la sfera di cristallo».
Dopo aver concluso il libro e questo viaggio felliniano a Rimini, cosa le è rimasto dentro?
«I libri che ho utilizzato come bussole per questa mia passeggiata: dai ritratti degli anarchici di Vittorio Emiliani agli articoli di Amedeo Montemaggi, dalle rubriche dei quotidiani che mi hanno raccontato il sindaco Camomilla alle letture, anche quelle più romantiche ed esoteriche, sul Tempio Malatestiano. E poi i filmati dell’Istituto Luce nei quali ho visto il varo del Rex, la
Fellinette di Francesca Fabbri Fellini, le interviste di Zavoli… Insomma, la cosa più bella del viaggio è stato proprio il viaggio».