Serena Sinigaglia porta al Galli "La peste" di Camus

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«Era il tempo del primo lockdown. Quando accadono eventi scioccanti vado a cercare risposte, riferimenti nella letteratura. Ho letto “La peste” di Camus. Era il momento giusto. È stato consolatorio, illuminante. Mi ha aiutato a capire con quale spirito vivere i momenti difficili».

Nasce così la versione teatrale del capolavoro dello scrittore francese, pensata e diretta dalla regista Serena Sinigaglia, in scena questa sera al teatro Galli di Rimini. Dopo Euripide, Shakespeare, i classici, ma anche opere liriche e autori contemporanei, la scelta della regista è caduta su questo romanzo dalla bruciante attualità.

Nella abbacinante città di Orano, in Algeria, in un anno imprecisato degli anni Quaranta, si diffonde la peste bubbonica. In primo piano le vicende del medico Bernard Rieux e di Jean Tarrou, figlio di un pubblico ministero e amico di Bernard. Attorno a loro un’umanità spaventata, formata da animi generosi e volenterosi, ma anche avidi e approfittatori. Un’epidemia che cela e si colora di fosche tonalità anche storiche, che prendono le forme della sopraffazione.

La diffusione del morbo nel romanzo ha una doppia natura, quella fisica, corporea, atemporale, e quella spirituale, politica, contestualizzata.

Dall’opera in prosa a una versione teatrale inedita.

«Ho fatto una sintesi di questo romanzo denso, intenso, in cui ci sono straordinari personaggi imprescindibili che ho mantenuto in maniera assoluta – spiega Sinigaglia –. La storia e i fatti sono rispettati. Unica variazione la ciclicità. La libertà della pièce è il fatto che si apra con Rieux che annuncia la fine della peste e si chiuda come è cominciata».

Perché questa scelta?

«Eravamo in piena emergenza Covid quando ho pensato a questa rappresentazione e mi sembrava più accogliente, più delicato predisporre il pubblico all’ascolto di buone notizie».

Quali qualità del romanzo ha scelto di esaltare?

«Il fatto che in questa storia emergano i grandi temi, il respiro dell’umanesimo e al contempo si racconti di cosa accade alle persone quando si trovano chiuse e in una situazione di pericolo. La contemporaneità è evidente».

Cinque gli attori in scena. Ha scelto qualche tecnica particolare per la recitazione?

«I personaggi sono tridimensionali, pieni di vita. Gli attori recitano senza soluzione di continuità tra prosa e discorsi diretti. Le parole sono potenti, evocano luoghi, tanto che abbiamo pensato che la scenografia dovesse essere simbolica, non realistica. Uno spazio astratto, evocativo».

Un palco abitato da sacchi bianchi.

«Come a rappresentare una trincea, la peste infatti è anche metafora della guerra. Ma i sacchi evocano anche la calce, che serviva per seppellire i morti, oppure i magazzini di viveri. Il bianco poi è il colore tipico delle città algerine. I costumi invece sono filologici, propri degli anni Cinquanta».

A quale pubblico si rivolge maggiormente?

«Questo spettacolo si rivolge a tutti, ma soprattutto ai giovani. È una lezione di umanesimo sul senso della vita, sull’amore che può salvare contro l’individualismo. Camus parla di impegno, onestà, di bontà laica, di come liberare l’uomo dalle pulsioni basse. Invita alla ragione anche quando ci si trova nel nonsense generale. Come nel mito di Sisifo il senso non sta nel raggiungere un obiettivo, nel portare il masso sulla cima della montagna, ma nel gesto vitale, nella stessa azione che è creatività, dignità. Valori positivi che vengono raccontati senza retorica o ideologie».

Inizio alle ore 21
Info: 0541 793811

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