Un tempo si diceva: vogliamo il pane e anche le rose. Oggi il curatore, drammaturgo e critico polacco Tomasz Kireńczuk, per il secondo anno direttore artistico di Santarcangelo festival, si domanda (e gli artisti con lui): in un mondo pieno di ingiustizie e disuguaglianze, siamo pronti a reagire? Il festival, giunto alla ragguardevole 53ª edizione, si svolgerà nella cittadina romagnola dal 7 al 16 luglio cercando di indagare proprio questo: i limiti di consenso e dissenso.
Tomasz, “Enough not enough” è il claim di quest’anno del festival: che cosa significa?
«È un gioco che apre alle diverse possibilità di lettura. Nella mia pratica curatoriale il claim viene dopo il programma: seguiamo gli artisti che ci interessano e poi proviamo a capire come dialogano e condividono le loro pratiche».
E quale filo rosso avete rilevato nei vari lavori presentati?
«Questa sensazione di dire “no”, “basta”, di chiedersi cosa si può accettare e cosa no, come si relazionano alla realtà sociale e politica. Questo non riguarda tutti gli artisti, certo, ma mi sembrava interessante domandarsi che cosa è abbastanza e cosa non è abbastanza».
Questa è la sua seconda edizione. Qualcosa è cambiato nella sua percezione del festival?
«Sicuramente ho elementi nuovi per capire questo festival, che conoscevo anche prima, da spettatore e curatore, ma viverlo dall’interno è diverso. Mi interessa molto la modalità in cui il festival cambia la città; la cosa bellissima è che Santarcangelo si modifica durante questi dieci giorni, e non solo in superficie. Per realizzare il festival dobbiamo chiedere alla cittadinanza di “regalarci” la città. Nasce un altro modo di viverla perché il festival la porta fuori dalle ragioni quotidiane, seguendo un altro tipo di energia e di ritmo. Amo vedere come si trasformano gli spazi, nascono cose nuovissime e gli artisti, anche quelli che portano spettacoli già pronti, affrontano un dialogo con il luogo che modifica profondamente i loro lavori».
Può anticiparci qualcosa di questo nuovo festival?
«Nonostante le moltissime difficoltà economiche di quest’anno, ci sarà una significativa presenza internazionale. Gli artisti affronteranno molte
questioni sociali e politiche, e tematiche connesse a femminismo, razzismo, queer, gender, ma anche il tema della responsabilità della cultura occidentale per lo stato del mondo in cui viviamo, un argomento che in Europa lasciamo fuori dai discorsi quotidiani». Proporrete nomi nuovi?
«È il ruolo di Santarcangelo, un festival molto connesso a livello internazionale, e questo ci aiuta a scoprire nuovi artisti e a portare la nostra ricerca verso nuove pratiche. L’anno scorso quasi tutti gli ospiti stranieri erano in Italia per la prima volta, una cosa rischiosa, ma alla fine gli spazi sono stati sempre pieni e c’era moltissima gente che voleva confrontarsi con le nuova proposte anche se non le conosceva».
E poi i ritorni.
«Anche questo è molto importante: essere uno spazio che sostiene gli artisti, li segue e diventa la loro casa, dove possono tornare perché le loro ricerche ci interessano».
Il pubblico si fida molto delle vostre scelte.
«Sì, ed è una cosa bellissima che dà moltissima libertà alla direzione artistica. Il forte legame costruito in 50 anni ci permette di rischiare, non dobbiamo portare al festival i grandi nomi per affascinare il pubblico, ma questo si confronta con un racconto sperimentale progressista, a volte anche difficile dal punto di vista estetico e politico, ma comunque molto aperto. Questo gli artisti lo sentono, e perciò vogliono fortemente tornare».
Ci saranno novità negli spazi o nelle sezioni del festival?
«Dovendo confrontarci con una situazione economica difficile, abbiamo provato a ridurre gli spazi, una decisione complicata dovendo gestire 30 compagnie e 140 repliche in 10 giorni. Non avremo più un grande palco nel parco ma una pedana sul prato con una piccola tribuna. Una situazione liminale dove ospiteremo spettacoli che entrano in dialogo con questo spazio naturale alla luce bellissima del tramonto. Poi useremo per la prima volta le ex carceri: qui ci sarà l’installazione dell’artista palestinese
Basel Zaraa . E utilizzeremo anche la Rocca Malatestiana». E la piazza?
«Tornerà il
Centro festival per uno scambio fuori dalla scena tra artisti, operatori e pubblico, un momento di condivisione molto informale e importante. Ci sarà inoltre una installazione temporanea, The Guxxi Fabrika di Cote Jaña Zuñiga, e interventi della performer svizzera Mélissa Guex e dell’attivista bielorussa Jana Shostak. Il bello di questo festival è che va oltre il programma: ci sono momenti in cui anche chi non si interessa agli spettacoli o ai dibattiti viene assorbito dal clima, e la piazza ha questa funzione». Se dovesse consigliare un solo spettacolo da vedere?
«Uno solo non potrei, mi sento molto legato a tutto il programma, e non si tratta solo di una questione di qualità ma anche dell’importanza che rivestono gli spettacoli per il festival. Per me ad esempio è importante la presenza della francese
Rébecca Chaillon , per la prima volta in Italia con la sua pratica che si pone tra arte e attivismo. Ma citerei anche il performer sudafricano Tiran Willemse, la canadese Dana Michel, così come il ritorno del polacco-britannico Alex Baczynski-Jenkins». E tra gli altri italiani?
«Sono molto felice che ci siano tante artiste italiane nel programma di quest’anno: il tempo passato in Italia mi ha permesso di conoscere meglio la scena: Chiara Bersani, Cristina Kristal Rizzo, Silvia Calderoni, Ilenia Caleo, Eva Geatti, Giorgia Ohanesian Nardin, Sara Sguotti... Inoltre mi piacerebbe che il pubblico vedesse i lavori di
Emilia Verginelli e di Agnese Banti, che presenteranno due nuove produzioni, risultato del lavoro svolto nell’ultimo anno grazie a FONDO, progetto dedicato al sostegno della giovane creatività. Siamo molto fieri e toccati dal modo in cui hanno lavorato sui loro progetti».