Un libro e una mostra: fotografie e parole si accompagnano nel progetto Storie che ho scritto di voi dell’artista riminese Roberto Baroncini. Sono coprotagoniste nel raccontare trenta artiste e artisti romagnoli attraverso i loro ritratti ma anche attraverso la parola scritta: raccolti in un volume presentato nei giorni scorsi alla presidenza dell’Assemblea legislativa della Regione Emilia-Romagna e esposti nella mostra omonima, visitabile fino al 4 aprile nello spazio espositivo di viale Aldo Moro a Bologna.
Come le è venuto in mente di raggruppare trenta artisti per farli partecipare a questo progetto?
«Ho pensato di esplorare il mondo degli artisti certo di incontrare persone estrose e culturalmente preparate, le immaginavo in grado di proporre le situazioni inusuali delle quali ero alla ricerca. Inoltre, ho pensato a ragione che mi sarei confrontato con donne e uomini avvezzi a mostrarsi in pubblico, non in imbarazzo davanti alla proposta di un ritratto dichiaratamente destinato a far parte di un libro e di una mostra».
I ritratti infatti sono stati raccolti in un libro e allo stesso tempo esposti in una mostra. Ci spiega l’evoluzione del progetto?
«
Storie che ho scritto di voi è un lavoro concettuale che esplora il rapporto delle persone con la propria immagine pubblica in tempi nei quali essa ha assunto un’importanza mai registrata prima nella storia dell’umanità. È frutto di un manifesto che ne ha regimentato modi e metodologie di realizzazione ancor prima di intraprendere la campagna di scatti. Tra essi c’era quello di accompagnare i ritratti con testi scritti non solo di mio pugno, ma anche dagli artisti che avevano come unico vincolo quello di essere completamente liberi nella scelta del soggetto del loro scrivere».
Nella sua mente quindi è nata prima l’idea del libro?
«Sì, perché meglio si presta a dar spazio a entrambe le gambe sulle quali il progetto cammina: quella letteraria e quella fotografica. Per quest’ultima mi sono riservato la facoltà di scegliere di volta in volta la tecnica fotografica più adatta, fermo restando l’uso della luce artificiale, vero filo conduttore tecnico di tutto il lavoro. Non va poi dimenticato che durante tutto il percorso sono stato assistito dal valente
Davide Venturini che ha documentato con la sua telecamera tutte e trenta le
Storie, dando vita a una corposa serie di brevi e bellissimi cortometraggi».
Presentando il progetto lei ha parlato di «un cambio di prospettiva» nella relazione con il soggetto fotografato. Cosa intende di preciso?
«Alla ricerca di un mio modo di affrontare il tema del ritratto, che al contempo mi mettesse a mio agio nel rapporto col soggetto e conferisse al lavoro una sua identità e il necessario contributo di originalità, ho pensato che se non mi fossi limitato a piazzarmi di fronte al soggetto con la mia macchina, modalità tipica del ritratto fotografico, bensì se mi fossi messo, metaforicamente parlando, al suo fianco nell’impresa di realizzare il ritratto che aveva sempre desiderato, avrei raggiunto i tutti miei scopi. Consiste in questo il cambio di prospettiva. Questo ha trasformato il “fotografato” da soggetto passivo a committente da soddisfare e me in colui che doveva soddisfarlo, posizione potenzialmente molto scomoda per un fotografo, a maggior ragione se, come previsto dal manifesto di
Storie, la scelta dello scatto giusto sarebbe stata a completo appannaggio del soggetto. Senza limiti di tempo né di situazioni, fino al raggiungimento della sua soddisfazione».
La scena romagnola è feconda di artisti e di intellettuali: pensa di dare una continuazione al progetto, con altri nomi oggi assenti?
«Sono affascinato dall’idea di trasformare sogni in realtà. Non intendo quindi escludere nuovi incontri con il mondo dell’arte, ma nemmeno di cominciare ad avventurarmi in altre direzioni, cosa che in realtà sta già avvenendo».