«Mio padre, il senatore? Cucinava per noi e ci ha insegnato ad aiutare il prossimo, ma non chiamateci famiglia del Mulino Bianco». A delineare un ritratto inedito dell’ex senatore ed esponente della Dc, Armando Foschi, che si è spento a 94 anni il 30 aprile scorso è il figlio 58enne Marco, parroco di Nostra Signora del Sacro Cuore a Igea e portavoce dei fratelli: il 57enne Riccardo, commercialista, il 54enne Federico, architetto, e Antonella, segretaria scolastica di 48 anni.
Don Marco, qual è il primo ricordo del suo papà?
«Ci ha insegnato a prenderci cura dei più umili, con grande spontaneità, portandoci nelle case dei contadini. Offrivano quel che avevano con generosità: un pezzo di formaggio, un bicchiere di vino. Mio padre si sentiva a casa, felice più che alle cene ufficiali, con i politici di mezzo mondo. Era la fine degli anni Settanta, entravamo in abitazioni molto diverse dalla nostra che, seppur non sfarzosa, sorgeva in città. Varcando la soglia, eravamo colpiti da sapori e profumi che riportavano al passato. Non dimenticheremo mai la luce negli occhi di chi si sentiva ascoltato».
Qual è il suo lascito spirituale?
«Papà ci dava la buonanotte raccontando episodi della sua vita, in particolare l’esperienza drammatica della guerra, poi pregavamo insieme con grande attenzione per i nostri defunti. Ci hanno segnato anche le domeniche al Santuario di Loreto o a quello della Madonna di Bonora di Montefiore».
Quale eredità dovrebbe trarre la politica di oggi dal percorso di suo padre in lotta contro vitalizi e pensioni d’oro?
«La capacità di dialogare, al di là degli steccati, rispettando l’altro e provando stima per le sue qualità. Una riprova? L’amicizia con l’onorevole del Partito comunista Francesco Onorato Alici. La politica deve essere servizio agli altri e piattaforma per la cooperazione, senza privilegi».
Un ricordo della campagna elettorale?
«Con gli amici andavamo alla sede della Dc vicino alla chiesa di Sant’Agostino dove prendevamo buste e manifesti per poi consegnarli in città, vivendo una grandiosa avventura in sella alle nostre bici».
Cosa ha comportato per sua madre avere un marito senatore?
«Mia madre insegnava materie tecniche all’Istituto Einaudi quando si è ritrovata sola con 4 figli da uno a 11 anni. Ha compiuto un mezzo miracolo anche prima, visti gli impegni sindacali a San Marino e un’agenda fitta di impegni, come vicepresidente della provincia di Forlì. Lui macinava chilometri e lei trovava la quadra, con l’aiuto di una signora che lavava montagne di panni per noi scalmanati e appassionati di sport. Era un mondo che poteva contare sul sostegno dei vicini e per i bambini era possibile crescere in strada senza grandi pericoli. Quanto a papà ricordo l’emozione forte di tutti noi entrando nel Senato della Repubblica per poi scoprire la bellezza di Roma. Nel 1986 mi trasferii al Seminario di San Giovanni in Laterano: incontravo mio padre con emozione arrivando in Vespa. Lui mi presentava al mondo politico dell’epoca. Qualcuno si stupiva che fossi sacerdote».
Come definirebbe la sua famiglia?
«Non quella del Mulino bianco, ammesso che esista. Anche per noi non sono mancati momenti di incomprensione o difficoltà, ma i genitori ci hanno permesso di seguire la nostra strada, malgrado qualche divergenza di opinione e caratteri non sempre facili da armonizzare».
Suo padre aveva sentore della morte imminente?
«Qualche tempo fa mi ha chiesto di ricevere l’unzione degli infermi, davanti alla famiglia. Niente discorsi strappalacrime, beninteso. Era pronto all’ultimo viaggio e sino alla fine ha cercato di far confluire la sofferenza nella fede».
Un dettaglio insolito per un uomo della generazione di Armando?
«Cosciente delle sue assenze, quando tornava a Rimini cercava di aiutare mia madre anche nei lavori di casa. Prima di andare alla messa domenicale, preparava pasta fatta in casa e piada e curava l’orto. Il suo esempio ci ha insegnato a dare una mano, trasmettendoci il gusto di collaborare senza perdere mai il sorriso».