Tra i sodali delle pompe funebri disposti a pagare sottobanco per risparmiare sulla vestizione delle salme e avere corsie preferenziali sul business dei funerali, c’era chi lo chiamava “Presidente”. Un appellativo, quello captato dalle intercettazioni dei carabinieri del Reparto operativo - Nucleo investigativo di Ravenna, che secondo l’ordinanza di custodia cautelare vergata dal giudice per le indagini preliminari Andrea Galanti, riflette il ruolo apicale dell’unico fra gli addetti alle camere mortuarie di Faenza e Lugo a essere finito in carcere. Il 57enne deve rispondere di corruzione e associazione per delinquere insieme ad altri quattro colleghi (ora agli arresti domiciliari) e a 11 impresari per i quali è scattata l’interdizione dall’esercizio dell’attività per 10/12 mesi (fra questi, uno è ai domiciliari). Difeso dall’avvocato Luca Orsini, comparirà oggi davanti al gup per l’interrogatorio di garanzia. “Al presidente - spiega il titolare di un’agenzia funebre a un operatore tecnico sanitario -, siccome deve comprare il latte al bambino... volevo lasciargli due averi”. Era un modo - così intende il giudice - per cogliere l’occasione e informarsi sull’eventuale disponibilità di altre salme in obitorio. “Quelle sono le cifre”, aveva poi ribadito direttamente il “presidente” all’impresario, come a richiamarlo per arretrati sui servizi di vestizione ancora da saldare.
La prassi della spartizione
Toni espliciti quelli captati nelle conversazioni, dalle quali emerge in maniera lampante la consapevolezza tra gli addetti ai lavori che la routine dell’affidare agli operatori sanitari la vestizione delle salme dietro pagamento di una quota (dai 20 ai 100 euro) non era consentita da regolamenti e norme sia interne sia stabilite dal servizio sanitario regionale, in vigore fin dal 2018. “
Non me ne frega un c... - continua va il “presidente”
- Io ho bisogno di soldi! Altro che pensione, va là, lascia stare! In pensione con 1.440 euro? Allora io a far le notti ne prendo 1.700, se permetti eh! Butto via 250 euro al mese, poi il resto? Son mica scemo eh! Starò lì finché non muoio. Garantito”. E’ un estratto dal quale si carpisce - secondo l’ipotesi accusatoria formulata nell’inchiesta coordinata dal procuratore capo Daniele Barberini - che da ambo le parti, c’era una meticolosa gestione dei conti: da un lato gli operatori sanitari tenevano un comune fondo da suddividere in base al numero di vestizioni fatte, dall’altro le 17 agenzie di pompe funebri compiacenti aggiornavano il bilancio di quanto già pagato. Come i 5.470 euro elargiti nel 2019 da un’unica impresa, citati nel corso di una conversazione tra il “presidente” e un collega, raccomandandosi che “
le imprese son da lasciar stare, fanno il c... che vogliono”, riportando precedenti recriminazioni ricevute, come “dicono, ‘tutte le volte che noi diamo 5, 10, 20, 50 euro noi segniamo tutto’
... e loro sanno quanto danno all’obitorio, così quando l’obitorio rompe il c., gli dicono ‘noi vi abbiam dato questo e quest’altro, ne potevamo fare a meno di darveli’...”.
Il racket delle salme libere
Sulla gestione delle “salme libere” l’accordo consisteva nel fornire alle imprese “amiche” le indicazioni necessarie per contattare i parenti dei defunti, per accaparrarsi le rispettive funzioni funerarie. La scelta avveniva solitamente sulla base della geolocalizzazione della salma, una sorta di competenza territoriale. Lo stesso presidente sarebbe stato colto dagli inquirenti in un’opera di convincimento di una vedova per indurla ad affidare l’incarico della sepoltura a un’agenzia scelta nella rosa dei paganti. Un gruppo dal quale aveva preso le distanza solo l’impresa Zama, la cui segnalazione ha fatto partire l’intera inchiesta su un sistema ormai rodato. Da quanto? Difficile stabilirlo, rimarca il gup citando un altro estratto del “presidente”, durante uno sfogo proprio nei confronti dei non affiliati: “
Voi non fate più vestizioni per lui! Ah no, tanto è lui che ci ha tagliato fuori da subito... ogni due tre anni una problema del genere salta sempre fuori”.