"Le guerre culturali si sono impadronite della politica"

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Se siete capitati su qualche pagina culturale in questi giorni, sia essa cartacea o digitale, l’argomento di cui si parla è la decisione dell’editore britannico Puffin di sostituire nei libri di Roald Dahl alcuni aggettivi e termini considerati non inclusivi. Decisione di cui si sono presto pentiti, vista la mole di critiche suscitata, tanto che sul mercato sarà ora disponibile sia la versione “ripulita” dai termini poco consoni che quella originale dell’autore. È un aspetto di quella che molti definiscono cancel culture, e di cui parla nel suo ultimo libro Scorrettissimi. La cancel culture nella cultura americana (Laterza) la giornalista e scrittrice Costanza Rizzacasa d’Orsogna. Giovedì 2 marzo alle 17.30 al Museo della Città l’autrice lo presenterà a Rimini con Lia Celi e l’associazione Interno4. Le abbiamo posto qualche domanda.

Lei ha vissuto a lungo negli Stati Uniti. La cancel culture attecchirà mai davvero in Europa?

«Credo che, in minima parte, abbia già attecchito. Non vedremo mai, però, in Europa, quanto è accaduto e sta accadendo negli Stati Uniti, che è frutto di tanti fattori squisitamente americani , tra cui anche una società estremamente polarizzata. Quando si parla di cancel culture, in Italia, oltre a usare a sproposito questa espressione e, spesso, a strumentalizzarla, si tende anche a ricondurre tutto a movimenti recenti come Me Too e Black Lives Matter. Stiamo parlando invece di un fenomeno molto più complesso, iniziato negli anni Ottanta, con quella che gli studiosi chiamano la Prima era del politicamente corretto (oggi siamo nella Seconda), quando alcuni campus iniziarono a dotarsi di codici di linguaggio, poi dichiarati incostituzionali, e passato, per arrivare fino a noi, attraverso il modello parentale ed educativo del safetyism, cioè la sicurezza emotiva del bambino come valore sacro, la crisi economica e l’ineguaglianza di reddito unite ai costi sempre più esorbitanti dell’istruzione superiore, l’estrema burocratizzazione dei campus e, come dicevamo, la polarizzazione politica. Se ancora all’inizio degli anni Novanta la politica sembrava uno strumento attraverso il quale risolvere le divisioni culturali, oggi le guerre culturali si sono impadronite della politica, con leader che, se vogliamo guardare alla destra, che pratica una cancellazione tutta sua, cercano consenso aizzando la popolazione contro i vaccini anti-Covid e in generale contro la scienza, contro l’uso, da parte di studenti transgender, del bagno del genere in cui si riconoscono anziché di quello di nascita, contro l’insegnamento, nelle scuole, della storia di schiavismo e di razzismo degli Stati Uniti».

Nel romanzo che le ha dato la notorietà, “Non superare le dosi consigliate” (Guanda 2020), lei ha affrontato disturbi alimentari e grassofobia. Temi con cui le nuove sensibilità si confrontano per evitare che certe espressioni feriscano o, peggio, compromettano lo sviluppo dei giovanissimi. Che differenza c’è dunque tra l’adozione di un linguaggio inclusivo e la cancel culture?

«È chiaro che i diritti devono andare avanti, che il rispetto è imprescindibile. Guardando alla recente operazione di marketing che ha falcidiato i libri di Roald Dahl , uno degli esempi che più colpisce è che la parola “fat”, cioè “grasso”, sia stata sì ovunque eliminata, ma spesso in favore di “enormous”, che vuol dire “enorme” ma nel senso di una figura imponente. Un’accezione più innocua, caricaturale e quindi favolistica, che segnala quanto sia tossica la parola “grasso”. Non a caso, secondo un recente studio di Harvard, che ha analizzato i preconcetti degli americani nei confronti di orientamento sessuale, razza, colore della pelle, età, disabilità e peso nell’arco di alcuni anni, mentre il pregiudizio verso le altre categorie è diminuito, il fat shaming, cioè la discriminazione verso le persone grasse, è aumentato del 40%. Stessa sorte, nei libri di Dahl, è toccata nell’era di Instagram alla parola “ugly”, brutto. Qualche giorno fa, una foto di Mina, leggenda della musica italiana e signora ottantenne in carne, è stata accolta sul web da tantissimi insulti, perché oggi non si può né essere grassi né avere le rughe».

Mancata rappresentazione

«Al di là delle persone sovrappeso – spiega Rizzacasa – , il problema dell’inclusione e della rappresentazione è indubbio. Ancora tra il 2006 e il 2015, nei teatri newyorkesi, quasi l’80% dei ruoli era interpretato da bianchi, che erano però solo il 44% della popolazione, e nel 2021 solo 10 su 44 film delle grandi case di produzione americane avevano personaggi Lgbtqia+. Sono i ruoli, insomma, che mancano. I ruoli e le idee. Questo non vuol dire che le motivazioni della cosiddetta cancel culture siano sempre sbagliate. Nel caso delle statue dei confederati, ad esempio, la rimozione è anzi doverosa, perché non si tratta di testimonianze storiche, ma di falsi revisionismi. Guai, però, a scambiare l’abbattimento delle statue razziste con l’abbattimento del razzismo. E questo, cioè che questi movimenti siano alla fine solo “cosmetici”, è un grosso problema».

A proposito di Dahl, il direttore del Salone del Libro di Torino, Nicola Lagioia, ha detto: «Se posso ristampare un tuo testo, a tua firma, cambiandoti le parole, significa che ti sto facendo dire quello che non hai detto. Il che equivale ad averti fatto fare quello che non hai fatto. Una questione che va oltre la letteratura e riguarda lo stato di diritto». E Salman Rushdie: «Dahl non era un angelo (riferendosi al suo noto antisemitismo, ndr), ma questa è un’assurda censura». Che ne pensa?

«Sottoscrivo. E aggiungo: non sono le parole a essere offensive, ma come vengono usate».

Sono femminista e amo Hemingway: come posso guarire?

«Anch’io. E sono anche animalista e amo Hemingway. La rivoluzione stilistica di Hemingway, l’urgenza di eliminare ogni parola superflua per arrivare a una frase che fosse come una scheggia, ha influenzato i suoi contemporanei e tutti quelli che seguirono. Ma oggi Hemingway non troverebbe un editore. Misogino, donnaiolo, violento, alcolizzato, amante della corrida e della caccia, del pugilato e della guerra. L’incarnazione della mascolinità tossica. Quando “Hem” si aggiudicò il Nobel, nel 1954, interpretava da così tanto tempo il personaggio del macho barbuto armato di fucile, amante del pericolo, delle donne forti e di “un vero drink”, che quella caricatura gli era rimasta appiccicata con l’Attak. E però separare l’uomo dall’opera e guardare oltre la caricatura è proprio quello che dobbiamo fare».

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