L’oasi dell’Ortazzo e Ortazzino è già scampata allo spettro dell’urbanizzazione 48 anni fa. Era il 31 luglio del 1975 quando l’ordinanza di sequestro del pretore Vincenzo Andreucci bloccò una carovana di betoniere della Cmc già schierate per versare cemento nell’area naturalistica a ridosso della foce del Bevano, finita nelle mani di una grossa realtà immobiliare romana. Un colosso come la società Lido di Classe, che proprio quest’anno ha venduto i quasi 500 ettari di sua proprietà, di fatto ormai intoccabili, a un’importante società immobiliare europea, facendo sfumare le speranze del Parco del Delta del Po di entrarne in possesso in un ottica di futura valorizzazione. Ebbene, nell’attuale scandalo dell’acquisto dell’area, messo a bilancio dal Comune di Ravenna per 512mila euro e poi sfumato, torna alla memoria quella «battaglia per l’Ortazzo» di ormai 50 anni fa, che «ha fatto storia». Sono le parole di Giorgio Lazzari, ambientalista ravennate che nel 2019 ha ripercorso la vicenda giudiziaria di quegli anni ribattezzandola “Il caso Ortazzo, una battaglia per la biodiversità”.
Il porto turistico bloccato
Quando all’epoca
l’Urtàz finì al centro delle mire di lottizzazione della società immobiliare romana, sembrava una partita persa in partenza. L’intera zona era destinata a diventare un quartiere turistico, fra palazzoni, appartamenti e stabilimenti balneari, con tanto di approdo marittimo al servizio dei vacanzieri già battezzato “Porto Gaio”. Non mancavano campi da golf nel progetto e un crocevia di strade pronte a lambire la “divina foresta spessa e viva” descritta da Dante. Pure la Commedia del Sommo Poeta era stata schiacciata dal Piano Regolatore Generale di Ravenna del 1973, con un pollice alzato su 5 milioni di metri cubi di cemento, poi ridotti nella variante del ‘75 a “soli” 3 milioni. La soprintendenza aveva dato l’ok, presto cristallizzato con l’invio dei primi mezzi impegnati a versare l’iniziale massicciata in pietrame per costruire il molo a sud della foce.
La vittoria ambientalista
Se oggi l’oasi è ancora intatta lo si deve all’esposto di Wwf, Federnatura e Italia Nostra del 1975, che diede il via all’intera inchiesta. L’indagine, che si avvalse di un team di esperti, fra universitari e addetti ai lavori in materia ambientalista e amministrativa, portò all’apertura di 10 fascicoli per un totale di 694 pagine. Otto gli indagati. Al centro degli accertamenti della magistratura l’iter burocratico che aveva portato a una sdemanializzazione di proporzioni bibliche a favore di un colosso immobiliare privato, per l’esattezza di 482 ettari ritenuti - in ipotesi accusatoria - inalienabili. La battaglia ambientalista, vinta con l’ordinanza di rimessa in pristino del 1977, deve molto anche a una mobilitazione popolare fatta di migliaia di firme e una campagna mediatica anche nazionale che all’epoca fece discutere. Proprio come accade ora, con la cessione dell’intera area a un nuovo proprietario in barba ai propositi dell’Ente Parco; notizia che ha giustamente oltrepassato il richiamo locale, riportando al centro del dibattito l’annosa domanda: quale sarà il futuro dell’oasi?