Lo avevamo incontrato l’ultima volta cinque anni fa, impegnato a presentare il suo primo lungometraggio, Easy – Un viaggio facile facile, singolare road movie che era valso all’interprete Nicola Nocella il premio della giuria per l’interpretazione al Festival di Locarno. Il regista riminese Andrea Magnani torna in questi giorni in sala con il suo nuovo film: La lunga corsa, già presentato l’inverno scorso al Festival di Torino. A proporlo per primo in Romagna è il cinema Tiberio di Rimini che riparte questa sera con la nuova stagione, completati i lavori di ecoefficientamento previsti dal bando Pnrr per Cinema e Teatri. L’inizio della proiezione, alla presenza del regista, è per le 21. La programmazione continuerà dal 27 al 30 agosto con biglietto unico a € 3.50 grazie all’iniziativa “Cinema Revolution” sostenuta dal Ministero alla Cultura.
Giacinto, il protagonista del film interpretato da Adriano Tardiolo (Lazzaro Felice, 2018), è figlio di due detenuti. Per lui il carcere è casa: lì dentro non solo ci è nato, ma ci è pure cresciuto. Libero di volare via, si ritrova decisamente impreparato a farlo.
Andrea Magnani, un nuovo film dopo cinque anni dal primo. Come è nato questo progetto?
«Era un soggetto addirittura del 2002 con il quale avevo vinto il Premio Solinas. L’ho tenuto per tanti anni nel cassetto, un po’ perché all’epoca avevo più che altro in mente di fare lo sceneggiatore. Poi non mi sentivo pronto per raccontare questo tipo di storia che, nonostante io non sia certo nato in carcere, sentivo molto mia e personale. Ad un certo punto ho capito che era la storia che volevo raccontare ma siamo “piccoli” come produzione (il film, di produzione indipendente, è prodotto da Pilgrim, Bartlebyfilm, Fresh Production Group, ndr) e ci è voluto del tempo. Poi c’è stato il Covid…»
Cosa ha voluto esattamente raccontare con la storia di Giacinto?
«Seppure ambientato prevalentemente in un carcere, non è un film sull’ambiente carcerario. E non vuole essere un film realistico quanto un modo per raccontare dei perimetri mentali che spesso noi stessi ci costruiamo. Di come viviamo il più delle volte scegliendo di stare in una comfort zone che può diventare una gabbia e bisogna avere coraggio per romperne le sbarre».
Il film inizia infatti con una porta che si apre sull’esterno e nei primi dieci minuti accadono già diverse cose. C’è un bimbo che doveva essere nei desideri una bimba, un papà tatuato, una guardia carceraria che cambia i pannolini… Un bel concentrato di situazioni.. Dove ci portano?
«Volevo innanzitutto rifuggire dal cliché dell’immaginario dei film carcerari. L’unico modo era quello di adottare il punto di vista di un bambino che vede il mondo come fosse una favola per rendere verosimile un percorso che di verosimile ha poco. Il bambino vede il mondo del carcere a colori pastello, c’è tutto un mondo che riporta alla favola, quasi senza tempo e luogo preciso».
A quali modelli di cinema fa riferimento? Il personaggio ricorda ad un certo punto anche Forrest Gump..
«Sì è vero. Soprattutto la leggerezza che aveva Forrest Gump. Io poi sono cresciuto come tanti con il cinema americano, quello della New Hollywood. Ma anche con i film di Fellini, soprattutto il primo Fellini:
I vitelloni, La strada, che avevano uno spessore poetico che mi ha influenzato. Ma anche Monicelli. E di recente certa cinematografia nordica, con i suoi tempo e spazio rarefatti».
Il film è una produzione Italia-Ucraina, dopo che il precedente era in parte ambientato proprio nel Paese oggi sconvolto dalla guerra. Come mai?
«In Ucraina ci eravamo trovati bene, sono nate amicizie ed è stato naturale. Abbiamo finito di girare nel settembre del 2021. Quando c’è stata l’invasione da parte della Russia, a febbraio del 2022, ero a Roma con il direttore della fotografia Iaroslav Pilunskyi. Avevamo appena finito la color correction. Lui ha voluto tornare a tutti i costi nel suo Paese. È ancora oggi sul fronte a combattere».