Una narrazione autobiografica, in cui passato e presente si scambiano sguardi luminosi: è La penultima illusione (Feltrinelli, pp. 324, euro 19) di Ginevra Bompiani, scrittrice, editrice, traduttrice, saggista, accademica nata a Milano nel 1939.
L’autrice ne parlerà con Nicoletta Bacco oggi alle 17 nel Chiostro del Carmine di Lugo per Scrittura festival.
Il libro racconta di due donne completamente diverse per età, provenienza, cultura, percorso di vita: la giovane N., adolescente somala, e Ginevra, la sua tutrice legale. Ne nasce un dialogo che conduce a ricordi, riflessioni e osservazioni sul passato e sui giorni nostri.
Il titolo del libro contiene la parola illusione. Nella lingua italiana ha un’accezione non proprio rassicurante, riferita al significato di inganno. Ma lei fa riferimento ad altro…
«Sì, alla parola spagnola
ilusión che non vuole dire inganno: è una promessa di felicità, che apre alla possibilità di qualcosa che non incontreresti se non avessi l’illusione stessa. Quando ci si aspetta qualcosa di più dalla vita, da quello che si sta facendo, quando ci si aspetta tanto bisogna tenere conto che questo tanto non sempre avviene, per cui si ha l’idea che l’illusione debba essere seguita dalla delusione. E invece l’
ilusión può anche ridimensionarsi nel tempo e aprire qualcosa di più grande».
Nel libro, parlando della relazione con N., la ragazza somala di cui lei è tutrice, c’è un'altra parola che risalta: “impaesamento”, il contrario di spaesamento…
«È, nella mia idea, una parola che esprime un po’ di più rispetto al concetto di accoglienza, di inclusione. N. arrivando in Italia ha scelto di rimanere quello che era e io volevo fare in modo che non si sentisse spaesata, non poteva bastare farle conoscere la nostra lingua, il nostro Paese, ma fare di più».
L’impaesamento presuppone una reciprocità, perché lei ha impaesato N. ma è anche vero che N. ha impaesato lei.
«Sì, esattamente. Nel concetto di inclusione si presuppone che sia l’altro a fare tutto mentre l’impaesamento è vicendevole».
Come è maturata la scelta della narrazione di “La penultima illusione”?
«Un’amica editrice mi aveva chiesto di scrivere un’autobiografia editoriale, poi ho pensato che non ho solo una vita editoriale, ma anche una privata, così mi sono resa conto che avrei dovuto parlare di tutto. Queste memorie sono venute alla luce nella scrittura di un diario e mi sono resa conto che il presente, che mi occupava moltissimo, è stato caratterizzato da due grandi sorprese: la prima è stata l’arrivo di N. nella mia casa e nella mia vita, la seconda sorpresa è stata il Covid: due presenze inaspettate. Scrivendo questo libro presente e passato hanno cominciato a guardarsi e a illuminarsi».
A condurla in Somalia è stata una grande figura legata alla Romagna, la missionaria forlivese Annalena Tonelli, che lei ha conosciuto. Che ricordo ne conserva?
«È stato un incontro straordinario della mia vita, andai in Somalia proprio per lei, c’era questa terribile guerra, morivano di fame centinai di bambini, ero turbata. Avevo letto un articolo che parlava di lei e avevo deciso di andare a conoscerla, tra molte difficoltà. Sono arrivata in Somalia dal Kenya. Mi diede un passaggio la Croce Rossa, viaggiai seduta sulle casse della penicillina e poi con le scorte armate sono arrivata a Merka. Non so se il caldo, l’umidità, la strada, e lo racconto nel libro, trovai Annalena che stava distribuendo farmaci per la tubercolosi con la mano destra. Le sono svenuta davanti, mi ha sorretta con la sinistra. Dopo essermi ripresa le sono andata dietro tutto il giorno, aveva costruito un bellissimo ospedale, non c’erano i letti ma i materassini sul pavimento, e sulle pareti alle spalle di ogni tappetino era raffigurato, per ciascun malato, un paesaggio. Meraviglioso. Era schiva Annalena, non si era lasciata fotografare».
Emily Dickinson ha scritto «Io sono nessuno! Tu chi sei? / Sei nessuno anche tu? / Che grande peso essere Qualcuno!». Lei è Ginevra Bompiani, un cognome che ha tracciato la storia della cultura in Italia. È davvero stato un peso?
«È stato un privilegio, e come tutti i privilegi ti limita un po’. Mi sono mossa in modo riservato proprio perché il mio cognome era conosciuto, non per me ma per mio padre (l’editore Valentino,
ndr). Mi ha limitata nei comportamenti, nell’educazione che è stata molto rigida. Ho fatto certamente conoscenze straordinarie. Mio padre mi leggeva la Dickinson, la Ortese, e quando non faceva il prepotente avevamo scambi bellissimi, questo è stato vitale per la mia curiosità».