Forlì, la favola vincente di Casta, da 4 a 50 dipendenti: "Le scelte giuste al momento giusto"

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Una storia romantica quella di Casta, l’azienda che crea cucine e macchinari professionali di Forlì fondata nel 1972 da Remo Cangini e passata nelle mani dei tre soci attuali. Una storia che affonda le proprie radici nella tradizione, ma che trova nell’innovazione la piena esplicazione. L’equilibrio perfetto, quasi omeostatico, del rapporto tra il vecchio e il nuovo – il passato e il presente – ha portato l’attività all’apogeo del mercato mondiale. «Siamo una famiglia, anche se non ci sono legami di sangue. Io e i miei soci, Paolo Valmorri e Maurizio Casanova, lavoriamo in simbiosi e nel pieno rispetto dei ruoli ricoperti», spiega Loretta Carbonetti, che dal 2008 è alla guida dell’azienda in cui ha messo piede per la prima volta più di trent’anni fa.

Com’è cambiata Casta nel tempo?

«Siamo partiti dal retaggio di una grande guida, che fino al 1996 ha portato avanti il lavoro. Remo Cangini è stato il simbolo dell’entusiasmo delle piccole attività artigianali forlivesi degli anni Settanta. Ha creato una bottega e ha iniziato a produrre piastre per piadine e pizze. Io ho iniziato il mio percorso qui nel 1991 rispondendo ad un annuncio su un giornale, come si faceva a quei tempi. Dopo due anni, nel 1993, lui è andato in pensione e ha nominato quattro dipendenti che riteneva idonei a portare avanti il suo lavoro. Al nostro fianco all’inizio c’erano solo quattro dipendenti, nulla mi avrebbe fatto pensare di poter crescere talmente tanto. Adesso siamo in cinquanta, significa che abbiamo fatto le scelte giuste nei momenti giusti. Con sacrificio e dedizione nel 1996 abbiamo ottenuto la certificazione CE per i nostri prodotti».

Un processo di crescita che non accenna ad arrestarsi.

«Siamo partiti nel 2001 con una sola struttura, Casta uno. Nel 2005 abbiamo acquistato, da quello che era rimasto di Omgas, i progetti e il know-how, iniziando così a espandere la produzione, puntando anche sui modelli di cottura standard. Scelta questa che ci ha fatto conquistare una posizione ben salda sul mercato internazionale. Le necessità sempre crescenti di spazio hanno portato alla costruzione di un secondo polo, inaugurato nel 2016, a cui è seguito, tre anni dopo, anche un terzo. Adesso stiamo lavorando a una riprogrammazione della produzione e vedremo come procedere».

Qual è il vostro marchio di fabbrica?

«L’attenzione alla qualità e alle esigenze dei clienti. Produciamo internamente il 92% del prodotti, ottimizzando i tempi e gli sprechi, senza ricorrere al contoterzismo, come succede a tante realtà del nostro settore. Abbiamo automatizzato il lavoro, con una macchina che taglia la lamiera, accelerando del 70% rispetto al lavoro manuale il lavoro di produzione. Offriamo assistenza nelle fasi pre e post vendita e forniamo un servizio di “academy” per la presentazione dei nostri prodotti. Degli chef qualificati cresciuti fanno degli show cooking in cui presentano i nostri prodotti, consentendo così ai clienti di testare il risultato della cottura e il risultato finale».

Quanti pezzi producete al mese?

«Circa trecento unità mensili per quanto riguarda le cucine standard, mentre per le etniche – un settore in cui siamo leader mondiali – si parla di cento pezzi. La cucina etnica presuppone spesso un lavoro su misura, che è un po’ più complesso. L’importante è anche l’imballaggio, che cambia a seconda che si tratti di una spedizione via nave, di un prodotto su misura o standard. La tipologia di cartone e di pallet è fondamentale per dare sempre al cliente l’idea che la qualità del Made in Italy sia seguita fino alla fine in ogni particolare.

Anche in questo cercate di ridurre il più possibile l’impatto ambientale?

«Certo. La ricerca è costante. La cosa che si è complicata nel corso degli anni è la parte burocratica, ma non solo in Italia. Nei paesi del Maghreb, per esempio, cambiano continuamente le regole ci dobbiamo adattare, ma fa parte della nostra flessibilità e duttilità».

A chi vi rivolgete?

«Offriamo soluzioni su misura adatte a tutti, dal piccolo punto di ristoro, al fast food, ai ristoranti di alto livello, passando per il mondo etnico e la braceria. Il 60% del nostro fatturato, però, viene dall’estero, siamo presenti in più di ottanta paesi. Abbiamo tantissime richieste soprattutto dalla Francia, che attualmente in Europa indica quella che è la tendenza del mercato. I ristoratori d’oltralpe sono quelli che durante il Covid hanno saputo investire meglio per rinnovarsi e innovare, facendosi trovare pronti per la ripartenza».

Come vi rapportate con questi clienti e dealer esteri?

«Sono quelli che capiscono e riconoscono maggiormente la validità e la credibilità del Made in Italy. Fuori dai nostri confini per gli ordini pagano il 50% subito e il restante prima della spedizione del prodotto. In Italia, invece, è una contrattazione continua».

A proposito di Covid, come avete vissuto quel periodo?

«Noi ci siamo fermati ad aprile del 2020, un mese drammatico. Mi sentivo impotente e per combattere questa condizione di inazione ho pensato di stravolgere la produzione consueta e iniziare a produrre le colonnine in acciaio per il gel igienizzante. Non ho puntato alla redditività, ma a dare alle mie collaboratrici e ai miei collaboratori una visione del futuro, fino a quel momento incerta e nebulosa».

Il fatturato è crollato in quel periodo?

«In realtà nel 2020 abbiamo chiuso con il 18% in meno rispetto all’anno prima, ma in un settore funestato, che si è attestato fra -35% e -55% non è stato un risultato pessimo. Nel 2021 siamo tornati sui livelli prepandemici del 2019 . Nel 2022, invece, siamo cresciuti».

Cosa fate per la città?

«Siamo official partner della Pallacanestro Forlì 2.015. Siamo stati tra i soci fondatori dell’impresa sociale Altremani, che si occupa dello sviluppo dell’attività lavorativa in carcere e della prevenzione della violenza nelle scuole. Siamo sempre di supporto all’Auser».

Come vive il rapporto con i suoi soci?

«La nostra società può continuare a vivere a lungo, perché ci siamo scelti. Nel 2008 mi hanno detto fai tu il ceo. In una Romagna non proprio aperta e innovativa dal punto di vista dei rapporti lavorativi parificati e dell’emancipazione femminile avere avuto questo incarico è stato importante e stimolante per me. Più di una volta mi hanno chiesto se sono al vertice di Casta perché mio padre mi ha lasciato il posto, come se per una donna raggiungere un ruolo apicale fosse una cosa impensabile».

Visto l’imprinting che ha dato, il giallo è una sua scelta?

«È l’identità dell’azienda. Era già presente nel primo logo: c’era un compasso stilizzato con una riga gialla. Questo colore per me è sole ed energia e in un mondo indistinto nel grigio di questo settore ho scelto il giallo per farmi riconoscere».

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