Ottimista e proiettato al futuro, invita i forlivesi ad aprirsi alle novità in una Chiesa che sta cambiando, confrontandosi quotidianamente con una realtà fatta di integrazione religiosa, accoglienza dei giovani e crisi economica.«Non facciamo del Natale una parentesi della vita quotidiana, la nascita di un bambino è un segno di speranza che deve illuminare tutto il nostro cammino». Livio Corazza è vescovo della diocesi di Forlì-Bertinoro da 5 anni (è originario di quella di Concordia-Pordenone), è dunque il suo quinto Natale romagnolo, «dal primo Natale, osservavo che qui ci sono più luci nelle strade – ammette – mi mancano un po’ i canti natalizi eseguiti da più cori che si svolgevano nella mia parrocchia, dai bambini dell’asilo fino ai cori cittadini, senza soste».
Come crede che verrà vissuto questo Natale dai forlivesi?
«Certo è un periodo storico di tante tenebre e preoccupazioni. Tutti condividiamo problemi economici, dal caro energia alle conseguenze della guerra in Ucraina, ma la preoccupazione peggiora la situazione. Invece vorrei dare un segnale di speranza che vedo anche nella vita che ruota attorno alla Diocesi. Come in tante parti, assistiamo ad un calo di partecipazione alla vita della Chiesa. Ma ci sono promettenti e attive presenze nelle parrocchie, nelle associazioni e gruppi giovanili. Ogni parrocchia offre punti di solidarietà concreta. Sono segnali di resilienza, controcorrente di fronte alla rassegnazione».
Ha accennato al calo dei fedeli praticanti, è più difficile avvicinare i giovani alla Chiesa?
«Ci sono segnali contrastanti. La presenza dei giovani è più saltuaria. Ma non passa settimana senza che abbia l’occasione di partecipare ad incontri con tanti ragazzi e giovani. Mi lascio sorprendere dalle nuove generazioni che si affacciano alla fede con maggiore fiducia e con meno pregiudizi ideologici. I ragazzi che incontro nelle parrocchie sanno valutare e distinguere le cose che contano da quelle che rendono schiavi. Abbiamo tante piattaforme di comunicazione, ma che in realtà ci fanno sentire più soli. Oggi la sfida della Chiesa è trovare un linguaggio che sia significativo per i giovani. Possiamo contare su forti esempi di aggregazioni giovanili, penso all’Azione Cattolica, all’Agesci, a Comunione e Liberazione, ai centri estivi che raccolgono importanti presenze anche di giovani coppie».
I giovani stanno vivendo momenti bui, secondo l'Unità dipendenze patologiche dell'Ausl Romagna gli effetti post pandemia hanno aumentato l'abuso di alcol, gli atti di autolesionismo, come anche i tentativi di suicidio. Cosa può fare la Diocesi per questi giovani?
«Adulti significativi cercasi. Il problema non sono i giovani, ma gli adulti. Vedo che tanti problemi dei ragazzi nascono o esplodono quando non incontrano adulti che li aiutano a crescere, a conoscersi e a dare il meglio di sé. Ma se gli adulti vogliono fingere di essere giovani, e non hanno tempo per loro, non basta uno psicologo per ogni ragazzo, quando serve un adulto che sappia accompagnare con amore e disinteresse. Per questo credo che i nostri gruppi sinodali possano favorire il dialogo e la crescita umana delle persone. Giovani compresi. La conversazione spirituale, come suggerito da papa Francesco, può aiutare ad umanizzare la quotidianità. E l'esperienza parrocchiale lo insegna».
Parrocchie che spesso sono costrette ad aggregarsi per carenza di vocazioni e che quindi faticano a continuare ad essere luoghi di incontro...
«La sfida è ripensare la presenza della Chiesa sul nostro territorio, non ripetere gli schemi del passato, anche recente, ma percorrere strade nuove che responsabilizzino tutti. L’Istituto Superiore di Scienze Religiose delle diocesi della Romagna, che ha sede qui a Forlì, quest’anno ha avuto un boom di nuovi iscritti, una trentina. E questo fa ben sperare. Il percorso formativo dei nuovi ministeri (partecipato da uomini e donne, queste ultime per la prima volta) è frequentato da oltre sessanta persone. I preti sono di meno, non per questo deve venir meno la Chiesa. Quindi c'è l'esigenza della formazione di tutti i fedeli laici, che per essere davvero significativi devono essere formati. Dobbiamo proporre esperienze di comunione accettando le diversità sia generazionali che culturali e religiose. E in questo senso, a Forlì stiamo facendo molto».
A cosa si riferisce?
«Penso allo storico incontro interreligioso svoltosi recentemente nel carcere di Forlì, con la partecipazione mia, dell’Iman e di altre autorità: abbiamo pregato insieme ai detenuti islamici e cristiani. Un dialogo interreligioso che qui da noi non è una rarità, oramai da anni. Penso anche al recente concerto con un coro formato da coristi russi e ucraini, cattolici e ortodossi. Chi riesce oggi a proporre esperienze così vere e intense di pace? Averlo proposto in Chiesa mi fa dire che la Chiesa è meglio di quello che si pensa e si dice. Purtroppo, troppo spesso il messaggio non viene colto, si guarda sempre ai mali più che a quello che di bene viene fatto. Come vescovo conosco i difetti e i peccati della comunità cristiana, così come sono consapevole della vastità di bene che si fa, dall'impegno durante la pandemia a quello a sostegno delle popolazioni martoriate dalla guerra. E questo è qui possibile anche grazie alla grande capacità di creare una rete di solidarietà che coinvolge associazioni, Diocesi e istituzioni pubbliche».
Ma c'è anche un sommerso di solitudine, persone senza casa né famiglia che vivono per strada....
«È vero, ma vorrei ricordare che nelle nostre strutture abbiamo sempre accolto tutti. Vi posso assicurare che finora il dormitorio ha avuto sempre letti non utilizzati».
Tornando alle difficoltà delle parrocchie per mancanza di sacerdoti adesso c'è anche il problema del caro energia che costringe alcune chiese a chiudere e a concentrare le messe.
«Vediamo cosa succede. Non possiamo pretendere che tutti capiscano e abbraccino le novità. Ma stiamo andando verso un nuovo volto di Chiesa ed una nuova organizzazione è sempre di più necessaria. Per esempio, fino alla fine dell’ultimo secolo del secondo millennio, nel centro storico c'erano 40mila residenti. Ora sono circa 15mila, con molti stranieri di altre religioni o confessioni, non si può fare tutto come si faceva una volta. Ci sono tante chiese, bisogna accettare il sacrificio di fare qualche metro in più e andare a messa in un'altra, tutti dobbiamo essere più agili e cambiare quando è necessario.
Pensando al Natale e al nuovo anno, c'è un progetto che le piacerebbe realizzare da condividere con la città?
«Mi piacerebbe avviare un consiglio pastorale dei giovani, veder realizzati dei gruppi sinodali aperti ad altri mondi di pensiero e di esperienza non direttamente ecclesiali. Mi piacerebbe mettere in mostra i tesori d’arte che costituiscono il patrimonio di cultura, fede e arte dei nostri artigiani. Come, per esempio, i paramenti sacri e preziosi di proprietà della Diocesi, alcuni dei quali conservati nelle chiese, ma non esposti. Magari in occasione della grande mostra sull'arte della moda organizzata per il prossimo anno ai Musei San Domenico, sarebbe anche l'occasione per fare ammirare questi manufatti a un vasto pubblico».
Tante opere d'arte custodite in chiese che però necessitano di importanti restauri i cui progetti rischiano di finire in un cassetto se non accolti nei fondi del Pnrr...
«Non è finita. I progetti della nostra Diocesi, come quelli delle altre diocesi romagnole che non sono stati accolti fra i progetti finanziati dal Pnrr, speriamo siano sostenuti in un altro modo».